Il nobile e rinomato vino di Cales
La grandezza e la potenza della Cales romana si manifestò anche nella viticultura.
La tradizione vuole che siano stati gli Etruschi i primi ad introdurre la coltivazione della vite nel nostro territorio.
Dal punto di vista logico, invece, si ritiene che la coltura è imputabile ai coloni greci che si stabilirono sulle coste dell’Italia meridionale nello stesso momento in cui gli etruschi si insediavano nell’Ager di Cales.
Successivamente, i romani, girovagando alla ricerca estenuante di prodotti in grado di soddisfare i palati più esigenti, portarono la Campania Felix ad essere al centro della grande produzione di vini che si esportavano in tutto l’impero.
E così Cales divenne una delle maggiori città fornitrice dei “vini degli Imperatori”.
A riguardo, è fondamentale conoscere i vitigni utilizzati e le loro caratteristiche.
Publio Virgilio Marone, noto semplicemente come Virgilio, narrava nelle Georgiche:
“Non eadem arboribus pendet vindemia nostris,
quam Methymnaeo carpit de palmite Lesbos;
sun Thasiae vites, sunt et Mareotides albae,
et passo Psithia utilior tenuisque Lageos
templatura pedes olim vincturaque linguam,
purpureae preciaeque, et quo te carmine dicam,
Rhaetica? Nec cellis iedo contende Falernis.” (1)
L’uva che pende dalle nostre viti non è certa quella che si coglie a Lesbo dai tralci di Metimma.
Vi sono uve di Taso, use bianche di Màrea, le une di terra grassa, le altre di quella fine, e la Psitia usata per il passito, la Lagèa che però soggioga le gambe e lega la lingua, le uve purpuree, quelle precoci.
E tu, uva di Rezia, come potrò cantarti?
Anche se non puoi paragonarti al Falerno.
Gli antichi vitigni
Orbene, Virgilio elencava una varietà di specie esotiche conosciute allora in Italia.
Le Tasie provenivano dall’isola greca di Taso, posta nella parte nord del mar Egeo.
Le Mareotidi prendevano il nome dalla palude Marea di Alessandria d’Egitto.
La raffinata “Lagea” derivava, secondo Servio, dal greco lagos (lepre).
Il termine stava ad indicare la velocità con cui il vino di quest’uva faceva ubriacare.
In aggiunta, aveva un colore rosso scuro come il sangue della lepre.
Le due caratteristiche morfologiche fanno ritenere che la Lagea potrebbe rappresentare l’antichissimo vitigno coltivato in Terra di Lavoro.
Oltre alla pianta, l’altro aspetto fondamentale era lavorare bene la terra.
Tra il 234 a.C. e il 149 a.C., i produttori campani si approvvigionavano alla rifornita e grande fiera di Cales.
Qui, trovavano gli attrezzi agricoli e ogni sorta di utensili.
“Romae tunicas, togas, saga, centones, sculpopeas;
Calibus et Minturnia cuculliopes, ferramenta,
falces, palas, ligones, secures, ornamenta,
murices, catellas.” (2)
A Roma compri tuniche, toghe, sai, mantelli e scarpe di legno.
A Cales e Minturno, copricapi, attrezzi di ferro, falci, pale, zappe, scuri, arnesi, fibbie e catenelle.
L’uso di tali attrezzi consentì ai caleni di ottenere un ottimo prodotto decantato dai più celebri poeti e scrittori latini.
Le prime notizie sul vino di Cales risalgono a Marco Tullio Cicerone che, nel testo “De lege Agraria”, ne celebra dapprima la fertilità del luogo di coltivazione e poi la rinomanza presso i romani. (3)
Il secondo ad esaltare i grandi vini campani fu Virgilio.
Quest’ultimo riteneva che nella città di Cales vi erano vigneti particolarmente rigogliosi.
“… vertunt felicia Baccho
Massica qui rastris, et quos de collibus alti
Aurunci misere patres Sidicinaque iuxta
aequora, quique Cales linquunt amnisque vadosi
accola Volturni …” (4)
Le l(odi) di Orazio
Nelle sue “Odi”, Orazio poneva il vino di Cales tra i suoi preferiti e lo reputava “delicato”.
Il grande poeta invitò Mecenate a bere nella sua villa in Sabina.
“Caecubum et prelo domitam Caleno
Tu bibes uvam: mea nec Falernae
temperant vites neque Formiani
pocula colles.” (5)
Io so che abitualmente bevi il Cecubo e il vino che si ottiene dai torchi di Cales.
Ma, come sai, non saranno certo, a casa mia, le viti del Falerno o dei colli di Formia a riempire le coppe.
In aggiunta, asserì che:
“premant Calenam falce quibus dedit
fortuna vitem, dives et aureis
mercator exsiccet culillis
vina Syra reparata merce.” (6)
A Cales, col falcetto continuino a potare pure le loro viti coloro a cui la sorte le ha concesse.
E il ricco mercante si scoli pure dalle coppe d’oro il vino che ha scambiato con le merci della Siria.
Infine, Orazio chiosò con una perla.
“Adduxere sitim tempora, Vergili,
sed pressum Calibus ducere liberum
si gestis, iuvenum nobilium cliens,
nardo vina marebere.
Nardi parvum onyx eliciet cadum,
qui nunc Sulpiciis accubat horreis,
spes donare novas largus amaraque
curarum eluere efficax.” (7)
La stagione, Virgilio, ti ha fatto venir sete, e se davvero sei così impaziente di bere del vino che si produce a Cales, pur essendo un cliente abituale di giovani di nobili famiglie, ebbene qui da me potrai scambiare il vino con il nardo.
Anche solo un vasetto del tuo nardo farà saltare fuori un orcio che giace nei magazzini di Sulpicio.
Un orcio di quel vino generoso nel ridare agli afflitti la speranza, capace di scacciare l’amarezza che lasciano nell’animo gli affanni.
Gli apprezzamenti di Strabone e Plinio il Vecchio
Il geografo, storico e filosofo greco Strabone, lodando i prodotti agricoli della Campania, lo collocò tra i migliori insieme al Falerno e Statano:
“Quaedam Campaniae arva toto anno conseri, bis zea,
tertium panico: quaedam etiam quarto satu olera producere.
Quin et vinum optimum hinc habent Romani,
Falernum, Statanum, Calenum.” (8)
Al vino di Cales accennava anche Plinio il Vecchio e non Plinio il Giovane come erroneamente riportato da molti storici.
“hinc felix illa Campania, ab hoc sinu incipiunt vitiferi colles et temulentia nobilis suco per omnes terras incluto atque, ut veteres dixere, summum Liberi Patris cum Cerere certamen.
hinc Setini et Caecubi protenduntur agri; his iunguntur Falerni, Caleni, dein consurgunt Massici, Gaurani Surrentinique montes.“ (9)
Da qui quella felice Campania, da questo arco cominciano i colli ricchi di viti e la famosa ebbrezza per il succo conosciuto in tutte le terre e, come dissero gli antichi, la somma competizione del Padre Libero (Bacco) con Cecere.
Da qui si distendono i territori Setini e Cecubi; a questi sono aggiunti i Falerni, i Caleni, poi si elevano i monti Massici, Gaurani e Sorrentini.
Inoltre, Plinio il Vecchio li collocava nella terza categoria di quelli che si producevano in Italia.
“Ad tertiam palmam venere Albana … Massica …
nam Falerno contermina Statana ad principatum venere non dubie palamque fecere sua
quibusque terris tempora esse, suos rerum proventus occasusque. Iuncta iis praeponi
solebant Calena et quae in vineis arbustique nascuntur Fundana et alia ex vicinia urbis,
Veliterna, Privernatia.” (10)
Infatti, gli Statani vicino al Falerno giunsero senza dubbio al primato e chiaramente dimostrarono che per ciascuna terra ci sono i propri tempi, la propria abbondanza e la scarsità di prodotti.
Accanto a queste cose, solevano considerare i vini caleni e i fondani che nascono nelle vigne e sull’arbusto e altri delle città vicine, Velletri, Priverno.
I riconoscimenti in epoca imperiale
In piena epoca imperiale, Giovenale apprezzò le virtù del vino caleno.
“occurrit matrona potens, quae molle Calenum
porrectura viro miscet sitiente rubetam
instituitque rudes melior Lucusta propinquas
per famam et populum nigros efferre maritos.” (11)
Una dama impettita che al marito assetato propina nettare di Cales mescolato con veleno di rospo e alle sue parenti inesperte insegna, meglio di Locusta, come seppellire le spoglie grigie dei mariti.
Successivamente, lo scrittore greco Ateneo di Naucrati nel capitolo De vinis Italicis lo paragonò al Falerno, ritenendolo ancora migliore.
“Calenum leve magis, quam Falernum, stomacho placet.” (12)
In un’altra versione dell’opera, il pensiero di Ateneo non subì alterazioni:
“Vinum Calenum ventriculo utilius, quam Falernum …” (13)
Nello stesso periodo, i grammatici latini Elenio Acrone e Pomponio Porfirione apprezzarono positivamente il prodotto della nostra terra.
Ma entrambi commisero un errore definendo il vino caleno “quello che nasceva in territorio Sidicino”.
Tale affermazione scatenò una veemente reazione di Mattia Zona.
L’abate pubblicò un libricino evidenziando gli strafalcioni commessi dai due studiosi.
Infine, Isidoro di Siviglia espresse un giudizio lusinghiero sul vino di Cales.
“Calenum vas vinarium: Romani antiqui dixerunt Calenum vinum“.
La moneta commemorativa
Cales rese omaggio all’eccellente qualità del suo vino con una moneta commemorativa.
Infatti, una serie presentava al rovescio un kantharos.
Secondo alcuni numismatici, l’oggetto avrebbe indicato le due principali attività della città:
la produzione di vino caleno e la manifattura di ceramiche.
Gli esperti identificarono il kantharos con un calix (“coppa” in latino) ed evidenziarono la somiglianza tra la parola calix e Cales.
Molti secoli dopo, la città di Calvi inserì nel proprio stemma un calice e due serpenti avidi di vino.
Uno era raffigurato in atto di bere e l’altro con la testa alzata.
Lo stemma, oltre all’autocelebrazione della produzione vinicola autoctona, riportava la frase “VETUSTISSIMA CALIUM CIVITAS“.
Per quanto concerne il procedimento di vinificazione, le uve calene, terminata la vendemmia, fermentavano in grossi vasi di creta.
Il dolium in foto è stato recuperato integro nel territorio di Cales.
Inoltre, i caleni producevano anfore, brocche, coppe e tanto altro.
Le anfore presentavano un corpo ovoidale, un orlo a sezione triangolare, un collo svasato e due anse (manici) a bastoncello.
Di fatto, il nome d’origine greca “ἀμϕορεύς” significa “che si porta da entrambi i lati”.
L’anfora era il recipiente più antico utilizzato per conservare e trasportare derrate alimentari solide e liquide.
Le brocche o oinochoe erano caratterizzate da un’ansa verticale, un piede a disco e un orlo trilobato.
In alcune di esse, i mastri vasai caleni collocavano con maestria al loro interno un’intercapedine.
Ciò consentiva di riempire una sola coppa all’atto di versare i liquidi.
Per poterne riempire un’altra, era necessario riportare la brocca in verticale.
Tutto questo materiale attinente al vino è stato rinvenuto sparso un po’ dappertutto nell’antica cittadina calena.
Le sue proprietà terapeutiche
Oltre a deliziare i palati, il vino, compreso quello di Cales, aveva proprietà terapeutiche e curative.
La natura, diceva Plinio, aveva fornito di proprietà medicinali anche le piante con frutti penduli.
Nei cardiopatici, l’unico rimedio sicuro era proprio il vino, che doveva essere somministrato esclusivamente con del cibo.
“Cardiacorum morbo unicam spem hanc e vino esse certum est.” (14)
Tuttavia, la traduzione del termine latino cardiacus è molto imprecisa perché il greco kardia sta ad indicare, oltre al cuore, anche l’epigastrio, ossia la bocca dello stomaco.
Per Celso, il vino era il terzo possibile rimedio per chi è colpito da “cardialgia”, ossia di mal di stomaco. (15)
Per inciso, in questi giorni di pandemia, è partita la sperimentazione del vino rosso contro il Covid-19.
Secondo una ricerca pubblicata sulla rivista Nature, il fenolo è idoneo a bloccare la replicazione del virus.
Bibliografia:
1) Publio Virgilio Marone, Georghiche, II
2) Marco Porcio Catone, De re rustica, 135; 1-3
3) Pasquarella C., D’Auria G., Lauro P., Uve e Vini della Campania nella Letteratura, Università degli Studi di Napoli Federico II, Facoltà di Agraria, Portici 2013
4) Publio Virgilio Marone, Eneide, VII, 725
5) Orazio, Carmina (Odi), I, 20
6) Orazio, Carmina (Odi), I, 31
7) Orazio, Carmina (Odi), IV, 12
8) Strabone, Geografia, V, pag.167
9) Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, Libro III, 60
10) Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, Libro XIV, 65
11) Giovenale, Saturae, Liber I, 69
12) Athenaei Dipnosophistarum siue Coenae sapientium, Libro XV, Lione1556
13 The Deipnosophistae of Athenaeus, Vol. I, 1927
14) Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, Libro XXIII, 50
15) Aulo Cornelio Celso, De Medicina, Libro III, Capitolo 19, 3
© Riproduzione riservata