La battaglia del Volturno

La battaglia del Volturno

La battaglia del Volturno ha rappresentato la più brillante impresa militare dei volontari in camicia rossa e di Giuseppe Garibaldi.

Il 1° Ottobre 1860, la zona si presentò avvolta in una nebbia fitta proveniente dal fiume.

La scarsa visibilità copriva e nascondeva alla vista uomini e cose.

I borbonici, incoraggiati dalla presenza del re Francesco II, di Francesco di Paola di Borbone, Conte di Trapani e di Alfonso di Borbone, Conte di Caserta, attaccarono i garibaldini.

Alle tre di notte, l’esercito napoletano uscì ordinatamente da Capua per dirigersi verso tre direttrici prestabilite.

Le truppe dovevano attaccare S. Maria frontalmente, S. Tammaro e Carditello a destra e S. Angelo in Formis a sinistra.

Alle cinque, l’impeto dei borbonici costrinse gli avamposti garibaldini ad una rapida ritirata.

Intanto Garibaldi, trovandosi a S. Maria, udì indistintamente il rombo dei cannoni proveniente da est.

Dalla loro intensità comprese che si trattava della battaglia vera.

Preoccupato dalla situazione, diede le istruzioni e si avviò in carrozza verso S. Angelo con parte del suo Stato Maggiore.

Intorno alle 6 del mattino, in prossimità del ponte Ciccarelli, le milizie borboniche scaricarono i loro fucili sui nemici.

Fu colpito a morte il cocchiere, uno dei cavalli della carrozza e due guide al seguito.

Garibaldi stesso scampò alla morte saltando fuori dal mezzo.

Il dittatore e i suoi furono costretti a proseguire a piedi verso il villaggio senza incorrere in altri problemi.

Nel frattempo, si continuò a combattere con accanimento anche a Santa Maria Capua Vetere.

Alle ore 18, i borbonici furono costretti ad indietreggiare e a ritirarsi sulle posizioni di partenza.

Ciò consentì alle camicie rosse di riguadagnare le posizioni sulla linea Santa Maria – Sant’Angelo in Formis.

Il potenziamento della linea di Calvi

Per tutta la giornata si susseguirono gli scontri e gli atti di eroismo dell’una e dell’altra parte.

Ma le sorti rimasero in bilico e i violenti combattimenti tra le milizie rivali consentirono solo brevi avanzate o arretramenti.

L’esteso fronte di guerra toccava S. Tammaro, S. Maria, S. Angelo in Formis, Caiazzo, Limatola, Castelmorrone, Ponti della Valle e Maddaloni.

La sera del 1° ottobre 1860, il re Francesco II suggerì al comandante delle truppe napoletane Giosuè Ritucci di riprendere l’offensiva il giorno seguente di buon mattino.

Tuttavia, il maresciallo di campo espresse una forte contrarietà per la complessità della situazione.

Il 2 ottobre, il Ritucci seppe delle “rilevanti perdite” subite ai Ponti della Valle dalle truppe del generale Won Mechel.

Nello stesso giorno, inoltre, comunicò al re che i tre battaglioni esteri del Mechel si erano ritirati ad Amorosi.

I garibaldini riportarono una straordinaria vittoria di “resistenza” su tutto il fronte.

Invece, i napoletani, nonostante le soverchianti forze in campo, non riuscirono a sfondare le linee nemiche.

Le truppe borboniche (“tutti i battaglioni cacciatori e il battaglione tiragliatori in premio delle durate fatiche“) rimasero nella Piazza di Capua.

L’elevato concentramento di soldati rese necessario riordinare l’esercito e gli accantonamenti.

Il comandante Ritucci dislocò a Calvi il 3° Reggimento Cacciatori della Guardia Reale della Brigata della 4° Divisione.

L’unità era formata da due battaglioni.

In aggiunta, la brigata, comandata dal colonnello Giovanni D’Orgemont, era costituita da:

  • un battaglione di tiragliatori alloggiato a Capua;
  • una batteria di tre cannoni da 6 di campagna del capitano Corsi accantonata a Teano. (1)

I soldati presero possesso dei due grandi accampamenti posizionati in prossimità della Cattedrale e nei dintorni di Taverna Mele.

Il ruolo di Calvi, dopo il dispiegamento delle truppe borboniche del 2 ottobre 1860, divenne sempre più importante.

Il ruolo strategico di Calvi

Il 7 ottobre, il re si recò all’ospedale di Capua per visitare indistintamente i propri feriti e quelli del nemico.

Tra quest’ultimi vi era il capitano Clonet, il quale chiese al Sovrano la possibilità di essere liberato.

Francesco II acconsentì all’istante.

Contestualmente, il generale Alessandro Isenscmid de Milbitz invocò mediante una lettera inviata da S. Maria la liberazione del maggiore Giovan Battista Cattabeni.

In cambio, avrebbe rimesso in libertà un qualsiasi ufficiale napoletano che fosse stato richiesto.

Il sovrano partenopeo accettò anche questa richiesta chiedendo come contropartita la scarcerazione del maggiore Domenico Nicoletti.

Nonostante l’ufficiale borbonico si trovasse a Napoli, il re non esitò a lasciare andar via prima il Cattabeni.

Intanto, la posizione di Triflisco diveniva di ora in ora sempre più insostenibile.

Sempre il 7 ottobre 1860, il generale Won Mechel scrisse al Ritucci.

Gli disse che avrebbe percorso la via di Alife e Pietravairano invece di quella di Pontelatone se si fosse ritirato da Caiazzo.

In aggiunta, ciò gli consentiva di portare l’artiglieria ed essere in grado di combattere con maggiore probabilità di successo.

Il comandante Ritucci, confermando il cammino di Alife, “gli significò che ciò facendo andasse difilato in Calvi.” (1)

Inoltre, ordinò di evitare di combattere a Caiazzo, se il nemico lo avesse assalito con forze maggiori.

In questo caso, come in quello di veder vinte dai garibaldini le posizioni di Triflisco e di Gerusalemme, facesse opera di ritirarsi in Calvi.” (1)

Da lì a poco, il territorio caleno fu teatro di numerosi avvenimenti ampiamente documentati e pubblicati su queste pagine.

Bibliografia:
1) Giovanni Delli Franci, Cronica della campagna d’autunno del 1860 fatta sulle rive del Volturno e del Garigliano, Volume 2, Napoli 1870

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