Lo schieramento borbonico del 20 ottobre 1860
La mattina del 14 ottobre 1860, mentre il fortino di Baia capitolava, Francesco II convocò Giosuè Ritucci a Calvi.
Il comandante immediatamente si recò nella cittadina calena con il tenente colonnello Giovanni Delli Franci dello Stato Maggiore.
Appena giunto, il Ritucci conferì a tu per tu con Sua Maestà.
Il Re chiese nuovamente la ripresa delle ostilità per consentire all’esercito borbonico di entrare vittorioso a Napoli
L’obiettivo era di impedire il plebiscito che si doveva tenere il 21 ottobre 1860.
Il generale in capo manifestò al sovrano quanto fosse dannoso all’esercito sferrare un attacco senza la certezza della vittoria.
Inoltre, si correva il rischio di arrecare un grave e irreparabile danno alla dinastia e all’indipendenza della patria.
Il Re, senza rigettare le tesi del Ritucci, lo spinse a preparare un nuovo piano di guerra.
Il colloquio durò due ore ed ognuno tenne la sua opinione.
Prima di congedarsi, il Sovrano gli consigliò di ritornare a Capua e discutere con i generali Won Meckel e Polizzy dell’opportunità di impiegare l’esercito in una battaglia decisiva contro i nemici.
Il maresciallo, come al solito, sollevò varie obbiezioni, presentandole per iscritto e controfirmate dai due generali.
Il 19 ottobre, Antonio Ulloa, direttore del ministero della guerra, fece l’ultimo appello a Ritucci per spingerlo ad una offensiva.
Ma questa volta poté opporre una ragione più che valida.
Le truppe piemontesi erano penetrate in Abruzzo e per garantirsi le spalle si rese necessario indietreggiare sul Garigliano.
Così, mentre si preparava l’arretramento del fronte, si attrezzava Capua per affrontare un lungo assedio.
Nel frattempo gli scontri erano continuati.
L’arrivo dei piemontesi
Il 12 ottobre, l’esercito piemontese, forte di quarantamila uomini, varcò i confini napoletani.
La spedizione era composta da due corpi d’armata:
- il IV, comandato dal generale Enrico Cialdini
- il V, agli ordini del generale Enrico Morozzo Della Rocca
I Granatieri di Sardegna, invece, furono inviati via mare a Manfredonia.
Il piano sabaudo prevedeva un’avanzata lunga la costa adriatica.
Da lì poi, seguendo due diverse direzioni, i due corpi dovevano riunirsi a Castel Di Sangro per piombare alle spalle dell’esercito napoletano, attestato sul Garigliano.
Il 20 ottobre avvenne il primo scontro tra i napoletani e l’esercito di Vittorio Emanuele,
I sabaudi, giunti in Molise, si schierarono sulla valle Vandra e sul monte Macerone, a nord-ovest di Isernia.
Qui, dal 18 settembre, si trovavano i borbonici del generale Luigi Douglas Scotti per fronteggiare l’aggressione piemontese proveniente dagli Abruzzi.
Scotti aveva ai suoi ordini:
- 634 soldati della gendarmeria (mag. Achille De Liguoro)
- 240 volontari guidati dal molisano Teodoro Salzillo
- Il 1° reggimento di fanti
- due cannoni.
Scotti, venuto a conoscenza della presenza di rivoltosi sul Macerone, all’alba del 20 avanzò in quella direzione.
Caparbiamente, nonostante fosse stato avvisato dai contadini della zona della massiccia presenza dei piemontesi, commise un grave errore.
Spostandosi comodamente in carrozza, inviò alcuni reparti sui tornanti che menavano al valico del Macerone.
Dopo aver iniziato coraggiosamente l’assalto, l’esercito borbonico fu sopraffatto da soverchianti forze nemiche.
Negli scontri a fuoco, alcuni di loro rimasero uccisi.
Molti altri furono fatti prigioniero, tra i quali lo stesso Luigi Douglas Scotti.
II restanti trovarono riparo sui monti di Isernia per poi ritirarsi a Teano.
La disposizione delle truppe
La condotta scellerata del comandante Scotti scoprì le spalle dell’armata di Ritucci e provocò un duro colpo al morale dei napoletani.
A quel punto Ritucci, avendo le retrovie scoperte, ordinò la ritirata generale dal Volturno, in direzione del Garigliano.
Nella piazzaforte di Capua, il comandante in capo lasciò circa 11000 uomini, compresi i reggimenti 9° e 10° dei fanti.
Per contrastare l’avanzata piemontese da Isernia, schierò la sua armata, da nord verso sud, dal Garigliano fino a Calvi.
- la divisione del Colonna con le artiglierie e le salmerie ordinate a scaglioni presso lo Spartimento
- la brigata di Giovanni D’Orgemont e il reggimento cacciatori a cavallo a Calvi
- la divisione del brigadiere Giovanni Luca Won Mechel a Teano
- la divisione di cavalleria del brigadiere Giuseppe Palmieri scaglionata su tutto il fronte
- la brigata di Vincenzo Polizzy, rivolta a sud, in retroguardia.
Quest’ultimo, neopromosso per il valore dimostrato nel combattimento di S. Angelo, diresse con grande bravura la difesa delle retrovie.
Dunque, Calvi fu invasa da migliati di soldati del re Francesco II.
Secondo alcune analisi, si stima tra i 4.000 e i 6.000 militi napoletani.
Quindi, il territorio caleno era pieno di soldati.
Ma il grosso delle truppe fu ospitato in due grandi accampamenti militari:
- il primo a Calvi Vecchia nell’area della cattedrale e del castello angioino-aragonese.
- l’altro invece allestito intorno a Taverna Mele al bivio Calvi – Sparanise.
I soldati rimasero sul nostro suolo solamente 4 giorni per poi trasferirsi a Gaeta.
Ma di questo ve ne daremo conto in una prossima ricerca.
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