I due presunti manutengoli di Petrulo
Il movimento rivoluzionario dell’agro caleno nacque a Petrulo la sera del 31 marzo 1861, giorno di Pasqua.
“La dimostrazione principiava la sera del 31 marzo 1861 in Petrulo di Calvi da 3 individui della guardia nazionale conterranei del Santillo“. (1)
I giovani petrulesi, Pietro Delle Fave di Giovanni, di anni 29, Francesco Izzo di Sebastiano, di anni 27, e Antonio Simone fu Stefano, di anni 26, si erano arruolati volontari nella milizia dello Stato italiano.
Ma, approfittando dell’assenza del loro capitano, il Barone Zona, quel giorno andarono in giro per il paese imbracciando i loro fucili ed intimando agli abitanti di gridare “Viva Francesco II“.
“Niun appoggio ebbero da quella dico quella pacifica popolazione e niente altro di sinistro accadde.” (1)
Ulteriori particolari sui fatti si ricavarono dalle dichiarazioni rese da alcuni abitanti di Petrulo.
Così la frazione calena assurse a centro di contestazione e di sovversione dell’ordine costituito.
A distanza di 5 anni, Petrulo salì nuovamente alla ribalta della cronaca legata al brigantaggio.
Sabato 12 maggio 1866, Lucio e Pietro De Nuccio, rispettivamente figlio e cugino del sindaco di Riardo, l’ing. Rocco De Nuccio, si stavano recando di mattina presto al mercato settimanale di Teano.
Pietro De Nuccio indossava la divisa della Guardia Nazionale perché era il capitano del locale corpo militare.
Tra la stazione ferroviaria di Riardo e il bivio della Casilina, furono assaliti e sequestrati da una banda di briganti.
Il capobrigante era il famigerato Domenico Fuoco.
Il barbaro assassinio dei riardesi
I due rapiti furono condotti sui monti di San Pietro Infine.
Da lì, i briganti inviarono una richiesta di riscatto con un orecchio insanguinato del giovane Lucio.
I familiari, constatando la brutale mutilazione, pagarono un consistente riscatto in oro.
Ma il 19 maggio 1866, la Guardia Nazionale di San Pietro Infine ingaggiò un conflitto a fuoco con i briganti.
I malfattori, prima di darsi alla fuga, uccisero i due riardesi e trascinarono con loro altri due prigionieri.
La notizia, per la sua drammaticità, ebbe un notevole risalto in tutta la provincia ed oltre.
Il 23 maggio 1866, dopo il gravissimo fatto di sangue, il Comune di Roccaromana chiese alla Prefettura l’autorizzazione per istituire una milizia armata.
Il sindaco estese l’iniziativa anche ai comuni vicini, ricevendo risposte positive sia da Baia che da Pietravairano.
A Riardo non aveva scritto per i noti fatti accaduti, anche se non dubitava che la proposta sarebbe stata accettata.
Solo Pietramelara non rispose all’invito per la presenza sul territorio sia dei Carabinieri Reali che la Guardia Nazionale.
A distanza di soli due giorni vi fu la risposta del Prefetto.
Il funzionario governativo non solo autorizzò ma incoraggiò fortemente la formazione di una milizia armata per la difesa del paese.
Ai buoni propositi, però, non seguirono i fatti.
A meta giugno, il sindaco di Roccaromana scrisse al Prefetto dicendo di non aver potuto formare la forza armata perché gli uomini del paese, quasi tutti contadini, erano impegnati nei campi tutto l’anno.
Chiese, pertanto, il distacco a Roccaromana di una parte delle guardie presenti a Riardo.
Per la sicurezza del suo paese, infatti, sarebbero stati sufficienti venti o trenta individui.
Pietro Di Stefano e Pietro Di Lucia
La semplice notizia che vi fosse stato un maggior dispiegamento di forze avrebbe tenuto a freno le scorribande degli assassini.
Di conseguenza, in conformità alla richiesta, il Prefetto dispose la mobilitazione di 150 militi armati per sorvegliare il territorio.
Il 5 febbraio 1867, due presunti briganti inviarono una lettera firmata a Rocco De Nuccio. (2)
L’ingegnere, con l’animo completamente devastato, si era trasferito a Capua dopo aver lasciato la carica di sindaco di Riardo.
I due briganti si firmarono come Francesco Alberti e Giuseppe Mirelli degli Abruzzi e la lettera risultava spedita da Marzano.
Essi si reputavano persone oneste che disgraziatamente erano stati sequestrati da una moltitudine di briganti.
Per salvarsi la vita dovettero convivere forzosamente con loro.
Ma dall’inizio di febbraio del 1867 erano finalmente liberi.
Nella missiva asserivano di voler aiutare Rocco De Nuccio a reperire informazioni correlate all’uccisione di suo figlio e suo cugino.
Poi sostenevano che per poco l’ex amministratore rischiò di fare la stessa fine del suo rampollo.
Infatti, uno dei due fiancheggiatori che distribuiva cibo ai briganti aveva indicato quali spie l’intera famiglia dei De Nuccio.
Nella lettera i due sedicenti briganti fecero i nomi di presunti manutengoli di Calvi.
Specificatamente, indicarono un tale Pietro Di Stefano di Petrulo con i figli adulti e il negoziante Pietro Di Lucia che deteneva anche le munizioni.
I mezzani di questo negoziante erano i tavernari di Calvi, oltre a persone non identificate di altri paesi.
Inoltre, indicavano come ambasciatori Giuseppe Cifone, capraro, e Gennaro Pagliaro.
I due briganti consigliavano al De Nuccio, se avesse voluto scoprire la verità, di far osservare “lo stato dei luoghi” di Riardo o delle vicinanze ad Assano o delle campagne di Teano da persone molto riservate, senza dare nell’occhio.
La grotta sotto la casa a Petrulo
In questo contesto sarebbe stato possibile vedere in azione “gli ambasciatori“.
E così scoprire chi erano i manutengoli locali dei briganti.
Gli estensori della lettera svelarono anche che a Petrulo vi era una grotta sotto una casa di pietra.
Nella cavità sotterranea venivano condotte le persone ferite.
Infatti, uno di loro due era stato ricoverato lì proprio in seguito ad una ferita.
Se vi fossero stati scontri tra le guardie nazionali e i briganti e qualche fuorilegge fosse rimasto ferito, sarebbe stato opportuno fare una visita in quell’anfratto per scoprire cose interessanti.
Da tale grotta, però, si poteva anche scappare perché comunicante con un’altra abitazione.
I sedicenti briganti concludevano la lettera augurandosi di poter parlare un giorno personalmente con Rocco De Nuccio.
Intanto, lo invitavano a tenere segreta la missiva se voleva conoscere tutta la verità.
Ma soprattutto di non fidarsi di nessuno perché “dalla testa puzza il pesce“.
L’ex sindaco di Riardo, al contrario, passò la lettera al Prefetto, che ne diede copia ai Carabinieri Reali di Caserta.
I militari dell’Arma la inoltrarono a loro volta al maresciallo della stazione di Calvi.
Il sottufficiale sorvegliò per alcuni giorni i petrulesi indicati nella lettera come manutengoli e ambasciatori dei briganti.
Alla fine il comandante rispose che i sospettati erano tutte brave persone, che vivevano onestamente ed in condizioni assai umili.
Se avessero collaborato coi briganti, di sicuro avrebbero vissuto in situazioni più agiate.
Bibliografia:
1) ASC, Giudicato Regio del Circondario di Pignataro, 31 maggio 1861
2) ASC, Fondo Brigantaggio, Prefettura Gabinetto, 269.2944
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