Lo scontro di Calvi
Al termine dello storico incontro del 26 ottobre 1860 avvenuto alla Masseria del Pagliarone a Vairano Patenora, Vittorio Emanuele II e Garibaldi, cavalcando affiancati e resi gli onori militari ad una brigata garibaldina dislocata un po’ oltre Calvi, si accomiatarono con una stretta di mano.
Il sovrano fece ritorno a Teano e Garibaldi indietreggiò triste e sconsolato a Calvi.
Il giorno successivo seguì l’altrettanto storico, ma meno conosciuto, “scontro di Calvi“.
Garibaldi, di buon mattino, seguendo la grande passione di arrampicarsi per le montagne, restò sulle alture nonostante la giornata fredda e piovosa.
Da lì, osservando i movimenti del nemico, scorse una pattuglia di 22 soldati napoletani a cavallo.
Emanuele, giovane calabrese, molto legato all’eroe dei due mondi, alla testa di uno squadrone di venti bersaglieri, piombò sul drappello e fece prigionieri tutti i soldati borbonici.
Scendendo dalla montagna, Garibaldi studiò tutte le precauzioni da prendere per evitare di incontrare il sovrano.
Attraversando a cavallo Petrulo, risalì con i suoi più stretti collaboratori la Strada Regia di Venafro (l’attuale Casilina) fino a Taverna Mele.
Al quartier generale del suo stato maggiore comunicò l’intenzione di recarsi a Sparanise “per la strada romana“.
Inoltre, pregò il brigadiere Rustow di inviare un rapporto al quartier generale del Re e di aumentare la parola d’ordine.
L’arrivo a Calvi di Vittorio Emanuele II
Nella tarda mattinata, improvvisamente si udirono delle grida di giubilo e di gioia provenienti dai battaglioni accampati nella città di Calvi, composti in gran parte di siciliani che presentavano le armi al Re.
Vittorio Emanuele II, seguito dai generali, dallo stato maggiore, da una compagnia di ussari e dalla gendarmeria a cavallo arrivò a Calvi.
Involontariamente, anche il brigadiere prussiano Wilhelm Rustow, il capo della missione, pensò che Garibaldi fosse partito alla volta di Sparanise al fine di evitare l’incontro con il sovrano.
A Taverna Mele un uomo saltava e ballava di fronte ai battaglioni, come Davide davanti all’arca santa.
Il re, particolarmente colpito, chiese chi fosse quel personaggio tanto singolare.
E l’interessato rispose con orgoglio e profonda convinzione: “Il Cappellano del Colonnello Rustow“.
Molto soddisfatto della risposta ricevuta, il monarca e il suo seguito ripresero la marcia.
Arrivato a Calvi Vecchia, il Re, accompagnato dal colonnello Giuseppe Dezza comandante della 18° Divisione, s’intrattenne a parlare con gli ufficiali e i soldati con le camicie rosse.
Il colloquio di Vittorio Emanuele II con il Dezza fu franco e sincero.
Il sovrano disse che a suo avviso l’unità italiana doveva concretizzarsi inevitabilmente, gli parlò di Venezia, ma non di Roma.
Parlando dei francesi, chiese perché non avessero rifiutato da subito l’aiuto fornito da Napoleone III alla spedizione dei Mille.
Infine, consigliò loro di non invadere lo Stato Pontificio ma di intervenire solo in un secondo momento.
L’ingegnere Dezza si scusò per non conoscere “l’etichetta reale”.
il Re, interrompendolo subito, rispose: “Anche questa presto sarà abolita“.
Il colonnello garibaldino si rivolse a Sua Maestà con queste parole:
“Presto noi saremo a tal punto che non abbisogneremo in nessuna guisa dell’aiuto della Francia“.
E il Re a lui: “Io credo che vi siamo giunti, se davvero vorremo la nostra patria indipendente“.
Lo scontro a fuoco
Subito dopo i saluti di rito, la colonna regia si mise il cammino.
Superato il ponte di Calvi Vecchia, i volontari inglesi che presidiavano l’ultimo avamposto sul suolo caleno, scambiarono le divise dei piemontesi per quelle dell’esercito napoletano.
Iniziarono così un vivace fuoco di sbarramento.
Fortunatamente nessuno rimase colpito dalle pallottole.
Una volta chiarito l’equivoco, Sua Maestà poté proseguire il suo cammino alla volta delle alture di S. Angelo.
Verso mezzogiorno il Dittatore rientrò a Calvi Vecchia da Capua percorrendo la strada principale.
Informato dello scontro a fuoco in un secondo momento, Garibaldi era furioso e schiumava dalla rabbia.
Il consiglio di guerra appositamente convocato decretò la fucilazione di due soldati inglesi.
Il comandante della legione straniera, colonnello John Whitehead Peard, per acquietare un probabile ammutinamento, chiese un atto di clemenza per i suoi combattenti.
E così il generale in persona, per la profonda stima che nutriva nei confronti del popolo inglese, concesse loro la grazia.
La missiva di Vittorio Emanule II
In serata, conversando con una deputazione del Comune di Palermo, del clero, della guardia dittatoriale, della guardia nazionale e di vari altri comuni siciliani venuti a fargli visita nell’antico corpo di guardia dei carabinieri a Calvi Vecchia, Garibaldi espresse parole lusinghiere sul sovrano:
“vedrete un vero galantuomo; io lo amo come un fratello; sarete certo contenti“.
Poi aprì un foglio scritto a mano dal Re e lesse commosso:
Caro Generale,
Mi rincresce di non averlo visto quest’oggi; le avrei stretto la mano ben volentieri.
Domani avanzo tutte le truppe, che ho qua sul Garigliano.
Dopo domani conto passarlo.
Quest’oggi il generale Della Rocca deve essere giunto con una Divisione sopra Capua.
So che non piace alle sue truppe di rimanere inattive, perciò la prego di portarle da domani verso Capua, onde concorrere di comune accordo col generale Della Rocca alla resa della Piazza.
Le auguro buona fortuna.
A rivederla fra breve.
Il suo affezionatissimo
VITTORIO EMANUELE
P. S. – Faccia avvertire il generale Della Rocca del suo arrivo e s’intendano insieme.
Il Dittatore, oltre le solite frasi di circostanza, era deluso e amareggiato.
Aveva intuito che la consegna del Regno delle Due Sicilie e della sua capitale ai Savoia sanciva la sua definitiva estromissione dalla guida dell’impresa ponendo fine alla spedizione dei Mille.
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