Il dispiegamento dei Borbonici
Le sfavorevoli operazioni militari nella Sicilia e nelle Calabrie ed il parziale sbandamento dell’esercito borbonico indussero Francesco II ad attaccare i garibaldini nella piana del Sele presso Salerno.
Ma per la defezione in extremis di alcuni ufficiali e soprattutto per risparmiare Napoli dagli orrori di una guerra, il giovane sovrano del Regno delle Due Sicilie ipotizzò di schierare il suo esercito sulle rive del fiume Volturno.
Però prima di prendere una decisione definitiva, chiese il parere di quattro valorosi e fedeli generali, che egli stimava tantissimo.
Non soddisfatto dei pareri discordanti espressi dai suoi comandanti, Francesco II si rivolse a Girolamo Ulloa, ritornato in patria da poco tempo, che suggerì di togliere il campo da Salerno e di avanzare l’armata più al nord, dove sarebbe stata più sicura, potendo contare sulla piazza di Capua, la linea del Garigliano e la fortezza di Gaeta.
Il 6 settembre 1860 il Re deliberò finalmente di concentrare l’esercito con a capo il maresciallo Giosué Ritucci sulle sponde del Volturno.
A Calvi, avamposto per coprire il fronte di terra rivolto verso nord, il giorno seguente dislocò una compagnia del 2° Battaglione Carabinieri Esteri della 2° Brigata della 2° Divisione capitanata dal tenente colonnello Aloisio Migy, composta per metà da cacciatori napoletani e l’altra metà da volontari Svizzeri o da reclute provenienti dai centri vicini alla Baviera: non a caso molti dei “Carabinieri Esteri” erano bavaresi.
La marcia verso Calvi
Numerosi soldati erano degli svizzero-napoletani, ossia figli di padre svizzero e di madre napoletana.
Avevano barbe bionde, indossavano cappotti grigi e conoscevano benissimo l’Italiano, il Napoletano e il Francese, ma poco il Tedesco, lingua con la quale si impartivano gli ordini militari.
Le due brigate della 2° Divisione, reduci da Salerno, giunsero a Capua la sera dell’8 settembre, e restarono più di 2 ore sul poligono dalla parte destra del fiume.
Alle 10 della sera giunse l’ordine che quelle due brigate marciassero alla volta di Calvi, Teano ed altri paesi.
Quella notte fu orribile per i poveri soldati.
Non appena partiti dal poligono, durante la marcia un violento temporale si abbatté sulle truppe.
La completa oscurità notturna era rischiarata frequentemente a giorno dal bagliore di fugaci fulmini che si abbattevano lì intorno, a poca distanza, accompagnati dal fragore dei tuoni; la pioggia cadeva abbondante da far perdere il respiro e un torrente uscì dal suo letto a causa della violenta piena ed invase la sede stradale.
La conformazione della strada e la presenza di alte pareti ai fianchi determinarono l’innalzamento dell’acqua fin sopra le ginocchia delle truppe.
I soldati marciarono con tutto il loro equipaggiamento scambiandosi battute e sorrisi senza mai scoraggiarsi o perdere la pazienza.
La batteria di cannoni
Il battaglione, composto da 200 uomini circa e 6 ufficiali, giunto a Calvi Vecchia nelle prime ore del giorno successivo, fu schierato nei pressi nella Cattedrale al di qua del ponte.
Le truppe presero possesso della dogana borbonica e dell’antico Seminario Apostolico.
Per di più, tutt’intorno costruirono delle capanne di sarmenti o tralci erbacei di vite e rami coperti di paglia per garantirsi una sistemazione dignitosa.
Inoltre, a Calvi fu accantonata una “Batteria d’artiglieria Estera” di 15 cannoni rigati da 4 di campagna detta “Batteria da quattro leggera”.
Il cannone rigato aveva una portata di 4 chilometri con una carica di 500 grammi di polvere.
Serviva principalmente quale artiglieria di reggimento e con un peso di 300 chilogrammi, era tirato da soli 2 cavalli o muli.
La sua maneggevolezza consentiva il trasporto anche nei luoghi meno accessibili.
Il comandante dell’unità di artiglieria era il capitano Enrico Fevot, ufficiale svizzero, insieme al suo secondo, il capitano Surj e al 1° tenente Casimiro Brunner.
Con il dispiegamento domenica 9 settembre 1860 delle truppe borboniche, la cittadina calena diventò il crocevia di popoli ed eserciti con un continuo andirivieni soprattutto di milizie napoletane, ma anche garibaldine e piemontesi, che culminò, a seguito dello storico incontro tra Vittorio Emanuele II e Garibaldi, con la spoliazione della sovranità e dell’indipendenza dell’antico e prospero Stato Sovrano delle Due Sicilie.
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