Il I Vescovo di Calvi – San Casto

San Casto, il I Vescovo di Calvi

San Casto, primo vescovo e patrono della città e diocesi di Calvi, fu uno dei primi martiri delle persecuzioni di Nerone.

La narrazione della sua passione era racchiusa negli Atti dei Santi scritti da Gregorio, vescovo di Terracina nel secolo XI.

Secondo alcune fonti, il ministro del vangelo era originario dell’Africa, dalla quale, a causa delle vessazioni subite, si trasferì a Cales.

La tesi preponderante, tuttavia, ritiene che nacque nella cittadina calena dall’illustre e nobile famiglia Vinicia Casta.

La prova più convincente è data dalla seguente iscrizione:

Origine_Casto

Casto adorava come gli altri cittadini caleni i simulacri di marmo, venerandoli come dèi, ai quali spargeva l’incenso e tributava ossequi.

Tutto questo durò fino a quando il glorioso apostolo Pietro, durante il tragitto per recarsi da Antiochia a Roma, si fermò a Cales predicando il vangelo.

Prestando l’orecchio alle sue orazioni ed indottrinato dai dogmi cristiani, ricevette il battesimo e con esso la fede.

Non soddisfatto di tenere per sé la grazia ricevuta dalla divina provvidenza, Casto, “spinto dallo zelo della carità ed infiammato di Spirito Santo“, iniziò a predicare la fede infervorato e desideroso di convertire il prossimo tanto da spingere Pietro ad ordinarlo vescovo di Calvi nel 44 d. C.

Quando nell’anno 64 d. C. un violento incendio devastò Roma, Nerone per distogliere da sé l’accusa di incendiario fece in modo che ad essere incolpata fosse la comunità cristiana.

Ebbe così inizio la persecuzione dei cristiani contraddicendo la costante tolleranza che i romani avevano sempre mostrato verso ogni religione.

La persecuzione dei cristiani

A scatenare la persecuzione non fu un capriccio dell’imperatore Nerone ma un clima di fanatismo e di esasperazione contro la comunità cristiana avvertita come un corpo estraneo, ostile ai valori della romanità.

I sacerdoti idolatri, avendo il timore di perdere il potere assieme alle prebende e alle elemosine offerte dai fedeli ai loro dei, radunarono il consiglio generale dei religiosi e dei ministri del tempio per richiedere all’imperatore Nerone di adottare gli opportuni provvedimenti al fine di castigare Casto.

Il tiranno inviò il preside Messalino, uomo di straordinaria ferocia, con l’autorità di arrestare e di uccidere il pastore caleno e tutti i suoi seguaci della Campania Felice.

Sentito il parere di alcuni cristiani, Casto si ritirò di nascosto per alcuni giorni nel territorio della città di Aquaviva d’Isernia, non lontana dall’alto casertano, dimorando in continua orazione e contemplazione all’interno di una grotta profonda ed oscura collocata ad una certa distanza dal centro abitato.

Ciò nonostante, il nascondiglio si rivelò inutile perché i sacerdoti riuscirono a scovarlo e comunicarono la sua posizione anche al preside.

Messalino, recatosi nella cittadina molisana, comandò che Casto e un altro di nome Cassio fossero condotti davanti a lui e li minacciò che avrebbe loro inflitto gravi pene e tormenti se non avessero reso i dovuti ossequi e adorazioni ai Numi.

Per nulla atterriti dalle minacce ricevute, ambedue ribadirono di aver fatto giuramento a Dio e a suo figlio Gesù Cristo.

La fornace ardente

Alla luce dei fatti, i due vescovi, fatti prigionieri, dovevano essere passati per le armi in esecuzione degli ordini imperiali.

Messalino, spingendosi oltre, decise che i loro corpi fossero gettati nel fuoco.

Ordinò di far preparare una spaventosa fornace scaldandola per tre giorni consecutivi.

Casto e Cassio, strapazzati e sballottati, entrarono coraggiosamente nella fornace ardente lodando e benedicendo il Signore con salmi, inni e canti spirituali.

Ed ecco la scena trasfigurata dall’onnipotenza divina:
il suolo infuocato del forno divenne un prato fiorito, le fiamme sembrarono bellissime rose, le vampate assomigliarono a fresche rugiade e la fornace, che prima di entrare era un piccolo inferno, con la loro presenza si trasformò in un piacevole paradiso.

Il barbaro preside, non scoraggiato dalla grandezza di Dio, ipotizzò con, l’aiuto dei sacerdoti, di torturare e tormentare i due vescovi.

Il Signore, però, prese le difese di quest’ultimi e lo privò della vista per vendetta.

Messalino, esclamando “Ohimè son cieco”, richiese l’assistenza ai sacerdoti pagani per essere accompagnato nel letto.

Gli ecclesiastici idolatri accorsero in suo aiuto e lo condussero nel tempio di Apollo cosicché le divinità pagane lo guarissero dalla grave infermità.

Ma non ricevette la grazia desiderata.

Allora il preside, ricordandosi che Casto e Cassio erano usciti illesi dalle fiamme, ritenne opportuno interpellarli.

Il miracolo dei due santi

Fatti uscire dalla prigione, Messalino convocò i due vescovi e comunicò l’intenzione di partecipare alle loro funzioni religiose pregando Iddio affinché potesse restituirgli la vista.

Cassio e Casto accettarono la proposta con la promessa di Messalino di ravvedersi dagli errori commessi.

Il preside promise di obbedire alle disposizioni e i due santi, genuflessi al cospetto di Dio, alzando le mani al cielo, invocarono l’aiuto del Signore.

Appena compiuta l’orazione, tutto d’un tratto il preside, aperti gli occhi, poté ammirare la luce del sole.

Messalino, tutto gioioso ed allegro, ringraziò i santi della grazia e del beneficio ricevuto e, mantenendo la parola data, decise di rimetterli in libertà.

Tuttavia, i religiosi, con uno stratagemma diabolico e meschino, si fecero avanti dicendo che uno uomo come Messalino, prudente e giudizioso, stimato da Nerone e dal popolo romano, avesse creduto ai due impostori, i quali lo avevano reso cieco per incantesimo e magia, e con la stessa arte gli avevano ridato la vista.

I sacerdoti convinsero il feroce tiranno a trasferire Casto e Cassio dalla prigionia all’atrio del tempio e li flagellarono barbaramente con dure verghe, mentre i due cantavano inni e lodi al Signore.

Al termine della fustigazione, li ricondussero nelle carceri.

I malvagi miscredenti, facendo credere a Messalino che i due vescovi avessero sparlato di lui e dell’imperatore, lo incitarono a far rinchiudere i servi di Dio in un’altra prigione di Acquaviva d’Isernia più orrida e puzzolente della precedente tenendoli legati ben stretti con nuove funi e catene.

Il tempio del Dio Apollo

Durante il trasferimento, erano seguiti dai sacerdoti del tempio festanti e giubilanti che li schernivano e li discreditavano agli occhi della popolazione.

Furono rinchiusi in un carcere sotterraneo particolarmente buio e tenebroso.

Durante la notte, quando la città era immersa nella quiete e i cittadini dormivano tranquillamente, furono svegliati di soprassalto da un insolito e spaventoso tuono.

Mentre cercavano di capire cosa fosse successo, videro una luce abbagliante che avvolgeva la sommità della prigione.

Accorsi numerosi sul posto, gli abitanti trovarono la torre della struttura completamente demolita e, osservando più attentamente, notarono che il carcere si era trasformato in un piccolo paradiso terrestre e una fragranza di profumi di fiori aveva sostituito l’asfissiante fetore.

Il luogo sacro di Acquaviva d’Isernia era dedicato al Dio Apollo.

Costruito da finissimi marmi, si presentava imponente e sovrastava qualsiasi altro fabbricato della città.

Rapiva i cuori di chiunque lo ammirava ed era molto bello ed ampio tanto “che ci entrava gente quasi infinita ed era assai frequentato più degli altri e tenuto in devozione non solo dagli uomini ma anche degli stessi demoni.

Il giorno seguente la distruzione del carcere, i due poveretti furono condotti nel tempio per ordine di Messalino deciso a farli uccidere se non avessero offerto l’incenso agli idoli pagani.

La distruzione della struttura

Avendo rifiutato sdegnosamente, chiesero a Gesù Cristo di voler mettere in fuga i demoni e distruggere quell’edificio con il suo potente braccio.

Il magnifico tempio di Apollo crollò improvvisamente dalle fondamenta colpito da un violento terremoto.

Il sisma distrusse il tetto, le pareti e tutto quanto si trovava all’interno, compresi i simulacri e statue degli Dei.

Il preside, i sacerdoti e tutto il popolo presente dentro le mura della struttura morirono sepolti sotto le macerie, tranne i due servi di Dio Casto e Cassio.

Gli ostinati sopravvissuti non presenti nella struttura rasa al suolo, senza sentire ragione, li presero e li cacciarono con la forza dalla città di Acquaviva legati a durissime catene accompagnati dal divieto di non farvi ritorno.

Così decisero di spedirli a Sinuessa (l’odierna Mondragone) per farli uccidere da un altro preside ivi dimorante accompagnati dalla seguente missiva:

Vi mandiamo due Christiani, quali fin’hora con le loro mafie, ed incantesimi  hanno rovinata questa nostra Città poiché col destruggere in poco, ma diaboliche parole il Tempio famoso del nostro Apollo, hanno privato noi de’ nostri riveriti simulacri de’ Sacerdoti, e de’ carissimi parenti; onde poco men si vede questa nostra Città spopulata; A te dunque, ò Preside di Sinuessa, li rimettiamo, acciò con la publica autorità li facci crudelmente morire.
Il Popolo afflitto di Acquaviva, che scrive, amorevolmente ti saluta.”

L’uccisione di Casto e Cassio

Senza attendere l’ordine del preside, il popolo di Sinuessa accorse numeroso fuori città per impedire l’ingresso in essa a Casto e Cassio.

Giovani e vecchi, fremendo di rabbia, scagliarono grosse pietre addosso ai due malcapitati.

In seguito, subirono l’orribile tormento del piombo.

Non contento e dietro le insistenze dei suoi concittadini, il preside di Sinuessa, messosi a sedere nel suo tribunale, fece condurre al suo cospetto i due vescovi e, ritenendo le accuse gravi e comprovate, decise di condannarli alla pena capitale:

Casto e Cassio noveli impostori, e perturbatori delle leggi Imperiali, che fin’’ora han professato la setta de Christiani, disseminandola in diverse parti della Campania, come rubelli de nostri Dei, a quali hanno espressamente negato il dovuto Culto, e con li loro incantesimi, e magia han diroccato il Tempio d’Apollo, e fatto morire il Preside Messalino nostro amico, con molti devoti de’ nostri Dei, ed osservanti delle leggi antiche de’ nostri maggiori siano in luogo publico decapitati.

Appena diffusa la notizia della loro condanna a morte, il popolo accorse numeroso sul luogo dell’esecuzione capitale.

I due vescovi, comparsi sul patibolo di fronte alla folla, si inginocchiarono e, dopo aver affidato l’anima a Dio, il carnefice, spinto da una barbara crudeltà, alzò la tagliente spada e recise una dopo l’altra le due teste dei vescovi.

Era il 22 maggio 66 d. C.

Il corpo di Casto restò insepolto per 39 giorni fuori la porta di Sinuessa.

Il ritorno di San Casto alla Cattedrale di Calvi

La notte del 1° luglio 66 i caleni si recarono sul litorale domizio e trafugarono le spoglie del vescovo favoriti dall’oscurità di una notte piovosa.

È presumibile che il sacro corpo del martire caleno fu seppellito in località “San Casto vecchio al Ciavolone” dove rimase per nove secoli, fino al 966, quando Landone, duca di Gaeta, di nascosto, lo fece trasferire nella sua città.

Qui Casto ricevette la palma del Martirio con la partecipazione del Sommo Pontefice Giovanni XIII, assieme al corpo di Sant’Erasmo e da altre reliquie di diversi santi.

Nello stesso anno, il vescovo di Calvi Andrea, chiese al duca di Gaeta la restituzione del corpo di San Casto, ma riuscì ad ottenere soltanto un braccio: la sacra reliquia fu racchiusa in una teca d’argento nel 1520.

I resti venerabili del primo pastore della diocesi di Calvi furono prelevati nel 1806 da Papa Pio VII dalle catacombe di S. Callisto a Roma per consegnarle all’allora cardinale di Napoli Luigi Russo Scilla, calabrese di nascita.

Grazie alla tenacia e alla perseveranza del parroco don Antonio Santillo, nel 2012, a distanza di quasi duemila anni dal suo martirio, le sacre reliquie di S. Casto martire sono ritornati nella cattedrale romanica di Calvi provenienti dalla Diocesi di Oppido MamertinaPalmi in Calabria.

Effettuata una ricognizione canonica dell’urna contenente il corpo del santo, il cranio completo di mandibola e le ossa (omeri, anca, costole, rotula, clavicola) sono stati collocati in due teche di vetro sigillate con la ceralacca e accompagnate dalla Bolla di autentica dell’anno 1806.

Le due teche sono state donate e consegnate il 23 marzo 2012 a mons. Pasquale De Robbio, vicario della Diocesi di Teano Calvi e al parroco della cattedrale di Calvi don Antonio Santillo, alla presenza delle massime autorità civili e militari.

Teche_Casto

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