Calepodio: il vescovo caleno
Passarono pochi più di vent’anni dalla crocifissione di Gesù e già a Roma iniziò a diffondersi la religione cristiana.
Erano tanti i culti che in quegli anni arrivarono nella capitale dell’impero affiancando e talvolta sostituendo la religione ufficiale.
Ad accomunarli era l’ansia di novità, l’aprirsi dei romani a culture sconosciute.
Si trattava infatti di pratiche devozionali che traevano origine nelle province via via conquistate e che furono riportati a Roma dai legionari al ritorno dalle missioni di guerra, oltre che dagli innumerevoli immigrati che giungevano nella capitale da ogni angolo dell’impero.
Dalla Frigia arrivò il culto di Cibele, dall’Egitto quello di Iside, dall’Armenia quello di Mitra, il mito che a Roma lasciò molte tracce in templi sotterranei e raffigurazioni del Dio.
Ad attirare i nuovi adepti era altresì il clima di esclusività, di segretezza, che circondava questi culti destinati soltanto agli iniziati celebrati in riti chiamati appunto “Misteri”.
Tuttavia, quando nell’anno 64 d. C. un violento incendio devastò Roma, Nerone per distogliere da se l’accusa di incendiario fece in modo che ad essere incolpata fosse la comunità cristiana, il cui capo Pietro fu arrestato e crocifisso a testa in giù sul colle Vaticano.
Ebbe così inizio la persecuzione dei cristiani contraddicendo la costante tolleranza che i romani avevano sempre mostrato verso ogni religione.
A scatenare le vessazioni non fu un capriccio dell’imperatore Nerone ma un clima di fanatismo e di esasperazione contro la comunità cristiana avvertita come un corpo estraneo, ostile ai valori della romanità.
Le persecuzioni dei cristiani
Le oppressioni iniziarono ben presto anche nelle province, nei municipi e nelle colonie latine.
Il 22 maggio 66 d. C., il boia, spinto da una barbara crudeltà, alzò una tagliente spada e recise la testa a San Casto, primo vescovo e patrono della città e diocesi di Calvi.
I romani guardavano con diffidenza alla nuova religione, non la capivano, soprattutto perché i cristiani apparivano stravaganti per i loro riti.
Si cibavano del corpo e del sangue del loro Dio, tra loro si chiamavano fratelli e sorelle e questo fece sorgere il sospetto di incesto.
Al momento dell’arresto, i seguaci della fede cattolica non fornivano le proprie generalità e si limitavano a dire che la loro ascendenza era in Cristo.
Dopo Nerone, anche gli imperatori più illuminati perseguitarono a tratti gli accoliti della nuova religione, talvolta sotto la spinta del fanatismo popolare che vedeva nel diffondersi del cristianesimo la causa di ogni calamità naturale.
Il 23 febbraio 303 d. C. l’imperatore Diocleziano emanò l’editto di Nicomedia, che stabilì il divieto per i cristiani di riunirsi, la distruzione dei loro luoghi di preghiera e dei libri sacri, ed altre severe limitazioni.
Tuttavia, a distanza di pochi anni, il clima iniziò a cambiare e maggiore tolleranza religiosa fu concessa agli adepti del cattolicesimo.
In quel periodo, nella città di Cales innalzarono al soglio episcopale il secondo vescovo di nome Calepodio, dopo quasi 250 anni dal suo predecessore, come si rilevava da un antico “Kalendarium Calvense ad instar Martirologii, quod breviario antiquissimo longobardis literis exarato praeponitur et in archivio canonicorum calvensium servatur“.
Erezione della basilica in onore di San Casto
Nell’anno di grazia 307 d. C. o giù di lì il vescovo Calepodio fece erigere un altare in onore del suo predecessore San Casto e vi pose il suo venerabile corpo.
E’ verosimile che le spoglia mortali del martire caleno rimasero lì fino al 966, quando Landone, duca di Gaeta, di nascosto, le fece trasferire nella sua città.
Calepodius … “Cales Episcopus circa annum 307. Altare in honorem Sancti Casti, sui praedecesoris, aedificavit, in quo ejusdem Sancti Martiris corpus collocavit, ibique sacrum quotidie faciebat.“
Nacque così la prima basilica paleocristiana a Cales attigua alla Via Latina dove si celebrarono quotidianamente per mille e cinquecento anni le funzioni liturgiche.
Nella chiesa di San Casto Vecchio al Ciavolone vi erano dipinti sulle pareti laterali di destra e sinistra due effigie di Santi; quello di sinistra, in particolare, riportava a chiare lettere l’iscrizione “Mater mea“, dove le “e” di Mater e di mea era “formata da una lunola o sia arco colla saetta” simile alla epsilon, quinta lettera dell’alfabeto greco, risalente secondo gli studiosi al periodo compreso tra il III e il IV secolo d. C.
Ciò confermerebbe ulteriormente le origini antichissime del tempio.
Episcopio SS. Martyrum Casti & Cassi
E’ bene sottolineare che la struttura ospitò l’antica sede vescovile, che nei primi tempi portò il nome di “Episcopio SS. Martyrum Casti & Cassi“.
Il vescovo Calepodio intervenne al concilio di Sardica (l’attuale Sofia) nella provincia romana dell’Illirico tra il 343 e il 344 d. C. per discutere sull’eresia ariana e regolare i rapporti con i prelati d’oriente.
Al concilio parteciparono, alla luce di un’epistola del sinodo a Giulio I (vol. LXV del Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum) soltanto sei metropoliti dell’Italia suburbicaria, ovvero a sud di Roma: Fortunato da Napoli, Vincenzo da Capua, Desiderius, Maximus, Stercorius e “Calepodius a Campania”.
Attualmente, della basilica di Calepodio non restano che pochissimi ruderi lasciati nel più completo abbandono sotto la campata del gigantesco ponte dell’Autostrada a poca distanza dal parcheggio “Cales” in direzione nord.
© Riproduzione riservata