La macellazione del maiale e le scorte di cibo
Il maiale ha accompagnato l’uomo fin dai tempi antichi, entrando a pieno titolo nella sua evoluzione.
La sua storia e l’intrinseco rapporto con l’essere umano iniziò nel neolitico.
In quell’epoca, la “rivoluzione neolitica” portò alla sedentarizzazione della vita della comunità.
Alcune popolazioni passarono dalla caccia e dalla raccolta spontanea dei prodotti ad un sistema basato sull’agricoltura e sull’allevamento degli animali.
La domesticazione avvenne probabilmente in Cina tra il 10000 e il 5000 a.C.
I primi nuclei di agricoltori e pastori comparvero nella zona della Mesopotamia.
Ma, l’allevamento dei suini si ridusse gradualmente d’importanza anche perché il maiale non si prestava agli spostamenti, rendendo problematici i trasferimenti da un bosco all’altro alla ricerca di cibo.
Ne conseguì che nella zona mediorientale si sviluppò maggiormente l’allevamento di pecore e capre.
Invece, quello relativo al maiale si intensificò sempre più nell’Europa centro-settentrionale dove vigoreggiavano immense foreste.
Dalla Mesopotamia poi l’allevamento del maiale arrivò anche in Italia.
La presenza e l’abbondanza del suino nel bel paese è testimoniata da numerosi documenti storici.
Già lo storico greco Polibio ci forniva notizie sulla diffusione del maiale.
“Per la notevole popolazione di lavoratori e per la generale abbondanza di cibo è certo che ci sono grandi mandrie di suini in Italia, e specialmente in quella antica, presso gli Etruschi e i Galli, cosicché una sola scrofa alleva un migliaio di maiali, talvolta anche di più.”
Nella società romana la carne di “porco” costituì l’alimento più importante e nutriente.
Infatti, i romani crearono grandi allevamenti nei quali i porci erano ingrassati e venduti al mercato per essere poi macellati.
Nel basso Medioevo, il suino fu allevato allo stato brado, mentre nell’alto si cominciò a praticare l’allevamento in stalla.
Nell’età moderna, la pratica della riproduzione ha portato all’avvento di razze specializzate.
La tradizione calena
L’uccisione del maiale, nelle case delle famiglie contadine calene, costituiva un rito che si svolgeva con lo spirito della sacralità.
L’usanza, infatti, dava la possibilità di avere una buona scorta di cibo per tutto l’anno.
La consuetudine contadina voleva che il sacrificio iniziasse a partire dal giorno di Santo Stefano.
Il 26 dicembre, i caleni si recavano alla fiera di Capua per comprare un piccolo maiale.
Avendone uno da crescere, si poteva procedere alla macellazione del grande.
Nei giorni precedenti vi era una preparazione metodica di tutti gli arnesi utili al compimento dell’operazione.
Gli uomini si inerpicavano sui monti alla ricerca del finocchietto selvatico.
Infine, si raccoglieva l’alloro, chiamato comunemente lauro.
Nel giorno e nel luogo fissato per l’uccisione del maiale confluivano parenti e amici per dare una mano.
Alla padrona di casa era affidato il compito di allestire “u cauraro” (grossa pentola di rame) nel quale si faceva bollire l’acqua.
Il capofamiglia, invece, aveva cura di preparare “gl’angruoccu“.
Si trattava di un un anello metallico schiacciato che fungeva da maniglia ad una estremità e una barretta forgiata in modo da formare un uncino, all’altra.
La macellazione iniziata alle prime luci dell’alba con un approccio soft verso l’animale.
Inizialmente, si invitata il maiale, fatto digiunare nelle dodici o più ore precedenti, ad uscire dalla stalla con la frase:
Ciccò … ciccò … seguiti da più suoni gutturali, simili ai grugniti.
Poi si passava alle maniere forti.
Il boia, dentro o fuori la stalla, gli conficcava “gl’angruoccu” sotto al mento e lo tirava.
Altri, invece, lo spingevano per la parte posteriore verso il punto in cui era stato sistemato un solido tavolaccio.
L’apertura del ventre
Ribaltato su un fianco, si legava il maiale “o’ scannu” con le zampe tenute una ad una dalle funi.
Una volta immobilizzato, il boia gli infilava un coltello affilato in gola.
il sangue colava abbondante in un recipiente.
Contestualmente, la padrona di casa roteava un cucchiaio di legno al suo interno per non farlo coagulare.
Esalato l’ultimo respiro, si riversava acqua bollente sul corpo del maiale per raschiare facilmente i peli.
Poi, si immergevano le zampe una alla volta nella pentola con l’acqua bollente.
Dopo pochi istanti, si sradicavano le unghie con “gl’angruoccu”.
Alla fine si toglievano i peli dalla coda.
Da qui il famoso proverbio “l’ultima a scurt’cà è ‘a còra” (la parte finale di un lavoro è spesso la più seccante).
Finito di pulirlo, il maiale era issato mediante le funi legate alle zampe posteriori al ramo robusto di un albero.
Con il passare del tempo, invece, si appendeva con la “trocciola” (carrucola) sotto la trave di un “suppegna” (casetta).
Agganciato l’animale, si toglieva prima la testa e poi si procedeva all’apertura del ventre.
La prima operazione consisteva nel rimuovere con un coltellino l’omento.
La maglia di tessuto adiposo di colore bianca è una rete o retina che tappezza la cavità addominale dell’animale.
L’azione successiva consisteva nell’estrarre le budella.
Le interiora, svuotate con l’acqua corrente e tagliate alle due estremità, erano immerse in una soluzione di acqua e limone o acqua e succo di arance.
Le interiora erano di 2 tipi:
le più sottili si usavano per le salsicce, le più grandi per la “soppressata” e i “sanguinacci“.
A seguire, particolarmente delicata era la rimozione della cistifellea, “u fele” poiché l’accidentale fuoriuscita del liquido conferiva alla carne un sapore amaro.
Di colore verde all’interno, era l’unica parte del maiale che si buttava.
Le due pacche
Poi toccava ai polmoni.
Facendo attenzione a non bucarli, qualcuno di buona volontà doveva soffiare aria al suo interno tramite la trachea.
Gonfi e chiusi alle estremità con dello spago, si appendevano avendo l’omento appoggiato sopra.
Lo stesso trattamento si riservava a “Maria F’licia“, la vescica.
Svuotata del contenuto e ripulita con acqua e limone, era riempita d’aria usando un maccherone.
Infine, si estraevano fegato, cuore, reni e stomaco.
A quest’ultimo, si toglieva la pelle all’interno prima di essere usato nei soffritti.
Terminate le operazioni di svuotamento, il corpo era diviso in due parti.
La resa era ottima se l’animale aveva tre o quattro dita di lardo.
Le due “pacche“, portate a spalla e avvolte in un panno bianco, erano sistemate in una stanza e coperte da foglie di lauro in modo che la carne ne assumesse il sapore.
Nel frattempo, si procedeva al confezionamento dei sanguinacci, chiamati comunemente “sanguanati“.
Le tipologie fondamentalmente erano due:
- dolce con sangue, riso, zucchero, pinoli, uvetta o “uva passa ” e cioccolato;
- salata con sangue, riso, pepe e sale.
Dopo aver mischiato gli ingredienti, si versava il preparato nelle budella e cotto a fuoco lento per oltre un’ora.
Il giorno seguente, di mattina presto, iniziava a “scurt’llà” le due pacche.
Il termine indicava la selezione delle carni e il frazionamento del costato.
La tradizione della macellazione del maiale si collegava ad una consuetudine estremamente significativa: lo scambio del cosiddetto “arrustu”.
Si trattava di un assaggio di carne del maiale che si inviava a parenti ed amici stretti come gesto di cortesia.
L’arrustu era composto da:
- un sanguanato
- un pezzo di fegato avvolto nelle foglie di lauro e poi nell’omento
- un numero di costate determinato approssimativamente in base al numero dei componenti della famiglia beneficiaria.
Ai parienti s’ spensa gl’arrustu
Era questa una usanza alla quale non si poteva rinunciare.
Se ciò non fosse avvenuto, si determinava l’interruzione del legame di parentela o di amicizia.
Inoltre, sacrificare parte delle proprie carni serviva ad assicurarsi che, a stretto giro, la cortesia sarebbe stata ricambiata.
Il rito era cristallizzato nel detto popolare “ai parienti s’ spensa gl’arrustu“.
Nei giorni nostri, invece, il proverbio ha acquisito un significato diametralmente opposto:
“bisogna sempre guardarsi dai parenti perché la fregatura è dietro l’angolo“.
Tornado al maiale, oltre alla carne, si aveva cura di ricavare il lardo, la “v’ntresca“, due prosciutti, due “capucuogli“, le “logne” e “u uccular’“.
La sugna (“nzogna“) si otteneva dal grasso dell’animale per colatura a caldo, tipicamente in umido.
Il prodotto si conservava nella vescica del maiale e in altri contenitori.
Dai residui carnei e cartilaginei del processo di fusione, si ricavavano piccole palline golose chiamate ciccioli (“cigoli“).
I cigoli si ottenevano soprattutto dai “panniciegli”, la parte viscerale, mentre erano pochissimi quelli estratti dal tessuto adiposo sottocutaneo.
Sfasciato il maiale, un’altra incombenza consisteva nel tagliare a pezzettini la carne fresca destinata al confezionamento della salsiccia.
Era un compito affidato a tutti i componenti della famiglia, dai bambini agli adulti.
Ma prima di iniziare a sminuzzarla, la padrona di casa si assicurava che le donne fossero libere dalle “mestruazioni“.
Se avessero avuto il ciclo, non avrebbero potuto tagliarla perché altrimenti la salsiccia sarebbe andata a male.
La carne, appena tagliuzzata (“i r’viezzi“), era collocata nella madia (“matrella“) e condita con sale, peperoncino, finocchio selvatico ed altre spezie.
Impastata proprio come si faceva il pane, si lasciava a riposo per una notte intera.
Il giorno dopo, ed era il terzo successivo all’uccisione del maiale, si procedeva ad insaccarla nelle budella.
Il confezionamento delle salsicce
Anche questa operazione era eseguita con cura e precisione dalla donna.
Il capo di budella, immerso in una pentola con acqua tiepida per renderla elastica, si riempiva di carne mediante un imbuto a bocca larga.
Contestualmente si punzecchiava in modo tale da farne fuoriuscire l’aria formatasi nella fase di riempimento.
Oltre a quella classica, si preparava anche la salsiccia di polmone (“‘e p’l’mone“).
Gli insaccati di carne costituivano dunque “i capi ‘e sauciccia“.
Lunghi circa un metro, erano appesi ad una “pert’ca” di legno sistemata al soffitto della cucina.
Allo stesso bastone si appendevano, dopo essere stati salati, le logne, i capucuogli, le supressate, l’uccularu e i prosciutti.
Alcune famiglie avevano l’abitudine di far sprigionare del fumo dal camino la sera prima di andare a letto.
Ciò avrebbe accelerato il processo di asciugatura e dato maggior sapore alle carni.
Comunque, perché la salsiccia potesse raggiungere il massimo grado di essiccazione doveva restare appesa almeno un mese.
Trascorso tale periodo, era tagliata a pezzi di otto – dieci centimetri di lunghezza e conservata in due modi:
- “‘a cumposta” immersa nella sugna in grossi vasi di coccio, bianchi all’esterno e verdi o marroni all’interno;
- una parte messa sott’olio in contenitori di vetro di varie misure.
Con quest’ultima incombenza, si poteva considerare concluso il “sacro rito” dell’uccisione del maiale.
La consuetudine, evidenziata con grande risalto nella civiltà contadina, si è estinta da trent’anni col progresso.
Oggi, nella nostra mente restano solo lontani ricordi legati alla cultura, al folklore e alle grandi feste di famiglia.
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