Le ianare
Una delle leggende più antiche ed inquietanti di Calvi, e non solo, è quella delle ianare.
Queste strane figure sono state protagoniste di numerose storie tramandate oralmente nel tempo da generazione in generazione, vicende che nel corso dei secoli hanno contribuito a diffondere nell’immaginario collettivo l’esistenza di uno stretto legame tra la vita quotidiana e il mondo dell’occulto, della magia, dell’esoterismo.
Le ianare, il cui termine deriva da “Dianara“, cioè sacerdotessa di Diana, la regina delle streghe, pur essendo dotate di poteri soprannaturali e magici, altro non erano che donne della porta accanto, frequentemente maritate con prole, o semplici conoscenti del paese, che, mediante rituali occulti, vendevano la propria anima al diavolo.
La mitologia vuole che di notte le megere si cospargessero il petto o le ascelle con dell’olio e si lanciassero in volo dalla finestra pronunciando la frase magica “sotto all’acqua, sotto o viento, sotto a noce e Beneviento” per raggiungere a cavallo di una scopa di saggina la noce di Benevento sfidando anche le avverse condizioni meteorologiche.
Qui, riunite sotto la grande pianta lungo le sponde del fiume Sabato, le adepte del culto di Satana tenevano i loro sabba nel giorno del solstizio d’estate, durante i quali eseguivano pratiche magiche e riti blasfemi.
Si riteneva che a capitanare la schiera fosse Erodiade concubina di Erode Antipa.
Le loro azioni scaturivano da un profondo desiderio di vendetta personale per qualche offesa o scortesia ricevuta, oppure per invidia.
Le scorribande delle ianare
La ianara, durante il sonno notturno, stendendosi soprattutto sul corpo dei malcapitati, provocava un senso di costrizione e oppressione sul petto e sul ventre, accompagnato dalla sgradevole sensazione di non riuscire a parlare per chiedere aiuto.
Si temevano anche alcuni dispetti più “innocenti”, per esempio che entrassero nelle stalle a rubare gli asini o i cavalli, riportandoli all’alba sfiancati e con le criniere inestricabilmente annodate o intrecciate.
A Calvi, inoltre, tra gli anziani circolano ancora voci secondo cui le ianare, nottetempo, rapivano i neonati dalle culle per passarseli di mano in mano tra loro.
Terminato il gioco, li riportavano nel posto da cui erano stati prelevati.
A volte, per mancanza di tempo, li lasciavano sull’uscio, nella stalla, ai bordi dei pozzi artesiani o sul ciglio di un fosso.
Tuttavia, lo spasso più pericoloso consisteva nel far passare i neonati attraverso il “treppete“, il treppiede che si usava nel focolare per sostenere il “cauraro” (calderone), perché si rischiava di causare la morte dell’infante.
Le vittime delle malefatte, ricoperte di lividi e graffi, erano condotte da fattucchiere.
Accertate le ecchimosi attraverso un’ispezione corporale, i maghi preparavano due bigliettini recanti scritte, croci e simboli, e li inserivano all’interno di sacchetti di stoffa sigillati da appendere uno sulla maglietta intima con una spilla da balia e l’altro dietro la porta di casa della persona presa di mira con la raccomandazione di non aprirli.
Al calar delle tenebre, le ianare, grazie ai loro poteri straordinari, lasciavano il corpo per girovagare con lo spirito ed entravano in casa passando sotto la porta (altra possibile etimologia del termine da ianua, porta) o la finestra.
Per questo si era soliti lasciare una scopa, una spatola di setola o un sacchetto pieno di sabbia sull’uscio.
Le contromisure
Secondo un’antica condanna, la strega era obbligata a fermarsi prima di entrare per conteggiare tutte le setole della scopa o i granelli di sabbia.
Le prime luci dell’alba, sopravvenute a causa delle lungaggini della conta, l’avrebbero costretta ad una fuga precipitosa, facendola desistere dal suo intento malvagio.
Le loro scorrerie costituivano fonte di istintiva angoscia tra i fanciulli e autentica preoccupazione tra gli adulti.
Quest’ultimi, solitamente, riunendosi intorno al fuoco del camino, narravano i fatti accaduti nei giorni precedenti e contestualmente studiavano le strategie per tenerle lontane.
Pare che, per scoprire l’identità della ianara, ci fosse uno strano rituale in uso in particolar modo a Calvi.
Per la messa della notte di Natale, gli uomini si recavano in chiesa con un attrezzo agricolo chiamato “sarreccia” (falcetta o falce messoria usato per la mietitura a mano del grano e di altri cereali) nascosto sotto la giacca o il cappotto.
A Petrulo, invece, i contadini nella notte della nascita del Signore entravano nel Tempio con gli stessi indumenti utilizzati durante la mietitura di giugno occultando un mazzetto di spighe di grano raccolte da una prima tagliata.
Al termine delle funzioni religiose, le streghe erano “bloccate” in chiesa.
La fine dell’antica leggenda
Per poter uscire, erano costrette a chiedere al parroco di allontanare coloro che impedivano loro di andarsene.
Oppure, apostrofando durante la sua visita notturna la frase magica “Iana’, vien’ pe’ sale“, al mattino seguente, irresistibilmente, la donna, ianara di notte, si sarebbe presentata per chiedere del sale rivelando così la sua identità.
Nelle scorribande serali, la vittima avrebbe potuto difendersi solo afferrando e tenendo ben stretti i capelli della strega rigorosamente al buio.
Quest’ultima, per divincolarsi, avrebbe tentato l’ultima carta rivolgendosi alla persona che l’aveva bloccata con le seguenti parole: “come mi hai afferrato?”
Se l’ignaro avesse risposto “per i capelli”, la ianara al motto “m’ ne fuiu comm’ a n’anguilla” sarebbe riuscita a divincolarsi e a scappare.
Tutte queste leggende, ruotando intorno al magico mondo fatto di incantesimi, riti e filastrocche stregate, ci rivelano in realtà la presenza di una tradizione popolare connessa con la fatica contadina e col lavoro dei campi fatta di credenze forse insensate che, dalla fine degli anni ’70, sono praticamente scomparse dalla cultura e dal folklore caleno.
Ah, dimenticavo una raccomandazione importante:
alla vigilia del prossimo Natale non presentatevi in chiesa con la “sarreccia” ben mimetizzata sotto il giaccone allo scopo di individuare possibili ianare.
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