Le patrie galere di Calvi
Sin dall’antichità, le autorità competenti rinchiudevano le persone condannate nelle carceri al fine di tutelare e salvaguardare l’ordine precostituito.
L’isolamento dei delinquenti in appositi luoghi di detenzione aveva l’unico obiettivo di fronteggiare e reprimere le malefatte.
Quindi, si adibiva a prigione un qualsiasi locale dal quale era impossibile evadere.
Per tale scopo, solitamente si sceglieva un ambiente particolarmente buio e angusto, o opprimente e angosciante.
Dietro le sbarre, le condizioni di vita erano raccapriccianti e spaventose in quanto la detenzione assumeva una funzione esclusivamente punitiva.
Nel Medioevo e nel Rinascimento, si utilizzarono come carceri diverse strutture fortificate, come i bastioni, le torri e i castelli.
Queste strutture rappresentavano il potere nella sua più ampia accezione del termine ed offrivano le necessarie garanzie di sicurezza.
Nel contesto appena citato, rientrava anche il Castello di Calvi, realizzato su un preesistente impianto difensivo longobardo.
La fortezza calena assolveva alle funzioni residenziali, militari ed amministrative.
Nello specifico:
- era la sede del Governatore della Città di Calvi;
- ospitava una guarnigione di soldati a difesa delle autorità e del territorio circostante;
- svolgeva prevalentemente in tempo di pace compiti economici.
Inevitabilmente, poi, associata all’originaria funzione militare, il maniero caleno disponeva di alcuni ambienti destinati alla reclusione dei detenuti.
L’ubicazione dei locali
Dunque, il Castello di Calvi, oltre ai compiti istituzionali, aveva la funzione di carcere mandamentale.
Il maniero si presentava come una tipica fortificazione con pianta quadrata e quattro torri cilindriche angolari a base scarpata, innestate agli angoli.
Ed è proprio la torre di sud-est che ospitava le patrie galere di Calvi.
I locali interrati, ricavati, cioè, al di sotto del livello di terreno circostante, affacciavano sul fossato.
Ma, la scala, che consentiva l’accesso alla struttura, era collocata al piano superiore a sinistra appena varcato il ponte.
In questo modo, i carcerati erano condotti nelle patrie galere senza interferire con le normali attività del fortilizio.
Invece, a mio modo di vedere, l’apertura visibile alla base del maniero era una finestra e non una porta.
In passato, il carcere rappresentava celle in cattive condizioni igieniche, freddo, letti improvvisati sul pavimento e scarso cibo.
Per i criminali più pericolosi, si ricorreva all’uso dei metodi di costrizione e imposizioni come catene e ceppi di ferro.
Le pratiche limitavano i movimenti dei reclusi per impedirne la fuga e proteggevano il personale di sorveglianza.
Durante una ricognizione nella fortezza di Calvi, sono state rinvenute delle scritte sulle superfici dei muri.
Le iscrizioni risultano concentrate nella zona vicina alla finestra, dove la migliore luminosità ne garantiva la stesura.
Le incisioni furono realizzate dai reclusi a ricordo del loro soggiorno nel locale, utilizzando le catene o pezzi di legno.
Nelle patrie galere calene trovarono posto sia gli uomini che le donne.
Quando poi la città di Calvi inglobò i nuovi casali, il Castello accolse i farabutti di Petrulo, Zuni, Visciano e Sparanise.
Le disposizioni relative al carcere
Nel Medioevo, la prigione costituì una fonte di guadagno per la Città di Calvi.
Infatti, le autorità regie chiesero ai caleni di sistemare le carceri per sicurezza poiché i proventi finivano nelle loro casse.
Mediante un’altra missiva, le carceri tenute dal Capitano del Castello s’intendevano “citra il preiuditio de li privilegii d’essa Città.”
I carcerieri non erano stipendiati dalle autorità.
Il loro guadagno consisteva nell’esercizio della funzione, in quanto i carcerati dovevano pagare per la detenzione.
La guardia intascava giornalmente 15 grana dai criminali per procedimenti penali e 5 grana da quelli per cause civili.
Dai delinquenti, invece, che non pernottavano nella struttura, non esigeva nulla.
Ugualmente, la pena capitale o l’amputazione delle mani e/o dei piedi era comminata senza compenso.
Se un criminale avesse voluto stipulare un contratto, lo avrebbe cacciato “fora da dette carceri” facendosi pagare 5 grana.
Le somme riscosse non finivano tutte nelle tasche dei custodi ma erano divisi con i protettori.
Il carceriere, oltre alla retta giornaliera, non doveva accettare altro dai detenuti, dai loro parenti o amici.
Inoltre, non si appropriava dei beni portati ai carcerati ma doveva verificare solo che non fossero oggetti fraudolenti.
Il custode esercitava personalmente le funzioni del proprio ufficio senza avvalersi di un sostituto.
Tuttavia, si serviva di un aiutante o di due garzoni.
In assenza di uno di loro, l’ufficiale reclutava un sostituto e lo pagava con i fondi destinati al guardiano.
Tutti e tre erano tenuti a dormire nelle prigioni.
Secondo poi le indicazioni del Governatore, dovevano far visita ogni sera o ogni notte ai carcerati.
Alla fine dell’anno, il carceriere presentava alle autorità un rendiconto.
Infine, la Città di Calvi avrebbe pagato una penale di un’oncia qualora i sorveglianti non avessero adempiuto agli obblighi contrattuali.
Il decadimento della prigione
Le condizioni di vita nelle patrie galere di Calvi migliorarono con il passar del tempo.
Nel 1705, la struttura in non perfette condizioni, consentì a due condannati di rifugiarsi a Zuni.
Invece, il 23 febbraio 1723, Giovanni Martino di Petrulo, detenuto nel vicino castello, evase e corse a rifugiarsi nella Cattedrale.
Trovando chiusa la porta piccola del Tempio, svoltò in fretta nel cortile, ben sapendo che l’atrio godeva dell’immunità d’asilo.
Immediatamente, sopraggiunse il carceriere, un tale Carmine Russo di Sparanise.
Costui intraprese un corpo a corpo con il fuggitivo per portarlo fuori dal luogo sacro e ricondurlo in carcere.
Il Martino, pestato, malconcio e con la faccia grondante di sangue per le molte graffiature ricevute, gridava:
“Sei scomunicato: questo è luogo sacro.”
Così, il Vescovo della Diocesi di Calvi Mons. Filippo Positano scomunicò il Russo.
Lo sparanisano ricorse alla Santa Sede per ottenere l’assoluzione.
“Carmine Russo ha umilmente supplicato … d’esser assolto dalla scomunica, in cui è stato denunciato incorso dalla Curia di V. S. a titolo d’aver estratto violentemente dal Cortile, ossia Atrio, di cotesta Chiesa Cattedrale ed aver battuto Giovanni di Martino …”
Roma, 14 aprile 1723. Cardinale Tanasi.
Accennando al crimine accaduto nel cortile o atrio della Cattedrale, la curia romana rimise al Vescovo la facoltà di assolvere.
Ma l’avvenimento più importante avvenne nel 1536 quando una famosa e stravagante donna calena fu incarcerata nel penitenziario.
La storiella merita una narrazione a parte per fascino e unicità.
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