‘U purcigliucciu ‘e Sant’Antonio

‘U purcigliucciu ‘e Sant’Antonio

Una delle più caratteristiche tradizioni del passato era legata a Sant’Antonio Abate, il fondatore del monachesimo cristiano.

Il primo degli abati nacque a Coma (l’odierna Qumans) in Egitto intorno al 250 d.C.

Figlio di agiati agricoltori cristiani, rimase orfano prima dei vent’anni con un patrimonio consistente e una sorella minore da badare.

Distribuiti i beni ai poveri e affidata la sorella a una comunità femminile, visse da eremita in preghiera e povertà.

Dopo aver trascorso i suoi ultimi anni nel deserto della Tebaide, morì all’età di 105 anni, probabilmente nel 356.

Le sue reliquie sarebbero state traslate prima ad Alessandria e poi a Costantinopoli.

Nell’XI secolo, un nobile transalpino le portò in Francia nel Delfinato.

Qui, in un villaggio poi chiamato Saint-Antoine-l’Abbaye, un altro signorotto fece costruire una chiesa che accolse le reliquie del santo.

Sembra che all’epoca della traslazione delle spoglie in terra di Francia, si siano verificate delle guarigioni miracolose.

La ricorrenza del santo eremita si festeggia il 17 gennaio.

In passato era una delle feste più sentite e coinvolgenti, un po’ come tutte quelle che cadevano in questo periodo.

Nella notte tra il 16 e il 17 gennaio, si bruciavano grandi cataste di legna.

Dalle fiamme dei “falò di Sant’Antonio”, si traevano buoni auspici per la primavera che incalzava.

Il fuoco, elemento purificatore, beneaugurante e propiziatorio, era in grado di sconfiggere le malattie e il male, generando energie positive.

Le ceneri, conservate in sacchetti e comunemente utilizzati come amuleti, tenevano lontano i morbi e le persone portatrici di guai.

La festa intorno ai falò, rappresentava un segnale della voglia di essere comunità, di condividere tradizioni consolidate e riti antichi.

La presenza del maiale nell’iconografia antoniana

Al santo egiziano sono legate molte e diverse tradizioni di devozione.

I suoi tanti protetti erano porcai, macellai, salumieri, pizzaioli, fornai, tosatori, fabbricanti e commercianti di tessuti, guantai, fabbricanti di spazzole, ceramisti, becchini, campanari, agricoltori, fabbri, eremiti e maniscalchi.

E ovviamente dei pompieri.

Si invocava Sant’Antonio Abate contro le dermatiti, la peste, la scabbia, il prurito, i foruncoli e il “fuoco di Sant’Antonio”.

Il timorato di Dio rigenerava gli uomini, proteggendo gli animali.

A tal proposito, qui entra in gioco l’altra presenza abituale nell’iconografia antoniana: il porcellino.

L’animale rievoca la resistenza del santo alle tentazioni cui il demonio lo sottopose o forse a ricordo di un animale guarito.

Qualcuno asserisce che in tempi antichi al posto del maiale vi fosse un cinghiale.

Ciò fa pensare che Sant’Antonio Abate sia la trasposizione cristiana della divinità celtica Lug, raffigurato appunto con un cinghiale in braccio.

L’ipotesi trova riscontro nella tavola dipinta Antonio di Puccio Pisano detto il Pisanello nel 1445 “Apparizione della Madonna a s. Antonio Abate e a s. Giorgio” e conservata oggi alla National Gallery di Londra.

L’unica opera firmata Pisanus mostra Sant’Antonio Abate con ai suoi piedi proprio un cinghiale.

Il legame tra il suino e il mitico personaggio diede vita ad una nuova tradizione contadina.

Il nuovo rituale zunese

Il popolo di Zuni, legato al folklore e alle tradizioni popolari del Mezzogiorno, introdusse quest’autentica novità.

In pratica, si trattava di allevare un maialino allo stato brado per le vie del borgo.

Il loro scopo era di reperire i fondi necessari per i festeggiamenti in onore di “San Nicola” il 6 dicembre.

L’animale rustico, di razza casertana, aveva una taglia media, uno scheletro sottile e un colore grigio-ardesia o nero.

Inoltre, era quasi privo di setole.

La comunità riceveva il porcellino da qualcuno che possedeva una scrofa oppure lo comprava nelle fiere o da un ambulante.

Per distinguerlo dai maialini posseduti dalle famiglie, gli legavano un fiocco rosso al collo.

Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, i zunesi appesero una medaglietta raffigurante San Nicola al nastro.

Nella ricorrenza di Sant’Antonio Abate, il parroco benediva il maialino e i cittadini riuniti in piazza lo mettevano in libertà.

Dunque, il suino fin da piccolo non avendo una fissa dimora, era lasciato in totale libertà.

Circolava per tutte le strade e vicoli del borgo, spingendosi fino a via Cales.

Il suo passaggio, segnato a volte da olezzi nauseabondi, era accolto benevolmente.

Ognuno, infatti, si premurava di fornirgli il cibo, tolto, magari, al proprio suino.

Gli abitanti gli davano le ghiande, le castagne, le mele, il granturco, i frutti selvatici e gli scarti alimentari.

Non mancava mai la “vrora“, una brodaglia calda derivante dalla lavatura di piatti e pentole con l’aggiunta della “vrenna” (crusca).

Al tramonto, si addormentava dove trovava un giaciglio di fortuna.

Alcune persone tentarono di ospitarlo nel proprio porcile.

Ma spesso la compagnia non era gradita.

Accadeva che l’intrusione dell’ospite era mal digerita dal legittimo occupante, sicché tra i due suini si accendevano rumorosi scontri.

La tradizione nelle altre frazioni calene

Il mattino seguente, ‘u purcigliucciu ‘e Sant’Antonio riprendeva i suoi consueti spostamenti.

E così dopo un lungo e libero passeggio per le vie cittadine, a fine anno si vendeva il maiale al miglior offerente (arriffo).

La somma incamerata, come detto in precedenza, era utilizzata per la festa del santo partrono.

Prevalentemente, il maialino era appannaggio delle classi agiate zunesi.

I nobili offrivano soldi che andavano ben oltre il valore reale dell’animale.

Dopo la sua macellazione, si ricavava lardo, “v’ntresca“, prosciutti, capucuogli“, “logne” e salsiccie.

In vita, però, il maialino era considerato una sacralità per ragioni sociali e religiose.

Malgrado ciò, agli inizi degli anni ’50, la comunità zunese rimase sconvolta.

Un giorno come tanti, non riuscirono a trovare il porcellino, pur avendo battuto palmo a palmo tutto il borgo.

Qualcuno all’imbrunire della sera precedente, lo aveva caricato sul carretto e portato via.

Ma fu subito rimpiazzato.

Nel 1965, per la grande festa di San Nicola, ne vendettero addirittura due, incassando 21.000 lire, come si vede nel documento allegato.

Sant'Antonio

L’antica e redditizia usanza spinse gli abitanti delle altre frazioni calene ad introdurre il “maialino vagabondo“.

A Visciano lo chiamavano “u puorc e San Silvestro“.

L’animale, per distinguerlo dagli altri, portava al collo un nastro celeste.

Alla fine del’anno, ‘u masto ‘e festa Giorgio Leone lo vendeva ad un benefattore in una sorta di asta.

Anche i petrulesi, conservatori e poco inclini alle tradizioni, sperimentarono con successo la consuetudine.

Comunque, l’antica usanza è sparita negli anni ’70 dal suolo caleno.

In questi giorni, l’amico Gabriele Renzi mi ha raccontato che il rito fu riproposto nel 1978.

L’allora ragazzo di 13 anni ricorda benissimo il porcellino in giro per le strade dei Martini di Visciano.

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